“STORIA DI UN CORPO”

I racconti fotografici del lunedì scritti da Antonio Sabia

Racconto 10 – BRIVIDI

Due settimane dopo…

Ho paura.

Da alcuni giorni sembra che il sonno si sia dimenticato di me, mi scansa come se fossi un morbo pestilenziale. Le pareti della cella sono fredde e umide, mi danno quella stessa sensazione di solitudine che provavo quando mi chiudevo in bagno, rannicchiata nella vasca senz’acqua, cercando di mettere in fila i miei pensieri, lontana da tutti. Dovrei sentirmi al sicuro qui dentro, lo so, ma il senso di vuoto, di buio profondo non mi lascia in pace. Mi tormenta.

Per questo, ho paura.

Quando la Polizia lasciò il mio appartamento, molte notti fa, cercai in tutti i modi di spiegarmi per quale motivo Marco avrebbe dovuto scrivere quello che continuavo a leggere come qualcosa di strano. Non ne feci parola con André, forse spinta da un senso di protezione più grande di me.

Tra le chat che avevo spiato sullo smarthpone, ce n’era una indirizzata ad un numero sconosciuto. Marco aveva inviato molte foto di una ragazza nuda seguite da un unico messaggio, inequivocabile: “5000 € o finiranno sui giornali. Paga qui entro domani sera, 40296015********0”.

Non avrei mai pensato che il mio amico, per il quale mi ero messa a nudo più volte, potesse cedere all’impulso del ricatto. Non mi sembrava vero, non poteva essere vero. Avrebbe potuto fare lo stesso con le mie foto e allontanarmi per sempre da Bianca, ma avevo rovinato tutto con le mie stesse mani; avrebbe potuto chiedere qualsiasi cifra ad André e far finire per sempre la nostra relazione, ma le mie bugie lo avevano fatto prima. Perché allora proprio con quella modella?

Il giorno dopo la visita della Polizia chiamai quel contatto dal mio cellulare, inventai una scusa banale soltanto per parlare, scoprire chi fosse e capire se avesse idea di dove fosse finito Marco. All’altro capo, però, rispose Cesare, il proprietario del pub irlandese dove avevo tratto in inganno Andrè. Il cellulare, mi disse, era stato ritrovato dalla donna delle pulizie, la sera successiva al nostro incontro. Gli era parso molto strano, perché quel giorno il locale era rimasto chiuso, come ogni giovedì; nessuno era entrato a parte l’addetta alle pulizie.

Quella telefonata mi gelò il sangue. Ero chiusa nella mia stanza con le ginocchia al petto, terrorizzata dall’idea di non sentirmi più al sicuro nella mia stessa casa.

“André?”, dissi a me stessa.

Un unico pensiero, freddo come una lama che sfiora la pelle senza affondare.

Senza dare nessuna spiegazione, chiusi le mie domande in un silenzio impenetrabile. André d’altro canto non chiedeva molto, e questo suo atteggiamento non mi sollevava affatto. Temevo di aver ragione a dubitare di lui. Ma dubitare di cosa? Non riuscivo a rispondere, non volevo rispondere. Avevo semplicemente paura. Per questo due giorni dopo scappai di casa e trovai rifugio nel monastero che mi aveva indicato Paolo.

Ho paura. E non riesco a dormire.

Provo ad avere il pieno controllo del mio corpo, ma non ci riesco. I brividi mi attraversano ovunque, dal collo fino alle gambe. Una piccola scossa di calore che lascia dietro di sé una scia ghiacciata. Segue il tremore diffuso: mani, dita, denti, gambe. Non c’è parte di me che non sia scossa da un fremito incontrollabile. Ma questa volta il piacere non c’entrava.

Per molte notti, rinchiusa in quel monastero, mi ero abbandonata a strane riflessioni sul rapporto che intercorreva tra mente e corpo. Probabilmente la vita quotidiana dei monaci aveva richiamato una vecchia chiacchierata tra me e Paolo. Come si può godere del proprio corpo senza esserne vittima? Occorreva spegnere la mente o lasciare ad essa il controllo? La risposta mi era arrivata in tutta la sua semplicità: se la mente veniva lasciata libera di trovare le risposte che cerca, il corpo riusciva ad abbandonarsi ad un caldo piacere; se al contrario era intrappolata in un labirinto di cui non vedeva alcuna via d’uscita, il corpo metteva in guardia tutti i propri sensi, fino allo spasmo, al tremore e al freddo terrore.

Ho paura. E non riesco a dormire. Ad un tratto la porta della cella si apre ed entra un monaco. In mano aveva un giornale e i suoi occhi non preannunciavano nulla di buono.

Fotografia di Laura Manfredini

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