“STORIA DI UN CORPO”

I racconti fotografici del lunedì scritti da Antonio Sabia

Racconto 8 SCHIENA

Il ritorno a casa fu lungo e buio come la notte. Le nostre bocche erano serrate, spaventate per quello che avevano visto. André guidava l’auto con entrambe le mani poggiate sul volante, aveva paura che da un momento all’altro potesse spuntare qualcuno a tagliarci la strada. Per tutto il viaggio affidammo al silenzio l’angoscia che ci aveva sconvolti.

Mi ero lasciata convincere che andare da Marco sarebbe stata l’occasione giusta per lasciarsi alle spalle la vicenda delle fotografie. André voleva parlargli e l’ansia dentro di me cresceva di ora in ora.

Attraversammo tutta la periferia ed entrammo nella villa. Il cancello era stranamente socchiuso, non c’è stato bisogno di citofonare. Parcheggiammo l’auto nel viale e ci avvicinammo al portone. Mentre André bussava con la solita delicatezza, notai che il balcone alla mia destra era aperto. Dentro non si sentivano né rumori né voci. Dopo qualche minuto ci guardammo e decidemmo di entrare. Mai avrei immaginato di trovarmi davanti uno spettacolo simile.

Le luci e il fondale disposti nel salone lasciavano pensare che quello era il set fotografico preparato da Marco. Lo chiamammo più volte, fino ad urlare; le nostre voci rimbombavano nel silenzio della casa. Non rispose nessuno.

André si avvicinò alla poltrona, nel centro della stanza, c’era qualcosa per terra che aveva attirato la sua attenzione. Provai a raggiungerlo ma mi bloccò trattenendomi per le spalle, impedendomi di vedere oltre. Fu un attimo. Nonostante André provasse a bloccare la mia visuale, i miei occhi riuscirono a scorgere la macchia scura sul parquet e in subito fui pervasa da un fitta allo stomaco.

<<Ma è sangue?>> dissi con un filo di voce.

<<Forza, andiamocene. Non possiamo restare qui>>, mi trascinò via senza badare alla delicatezza. Prima di uscire, riuscii a liberarmi dalla morsa e corsi verso il tavolo della cucina, qualche metro più in là. Riconobbi lo smartphone di Marco e l’agenda nella quale raccoglieva tutte le idee per i suoi scatti. Li presi entrambi.

André era già fuori, gesticolava in preda al panico. In quegli istanti il mio unico pensiero era rivolto al mio amico, ero terrorizzata dall’immagine di lui riverso per terra in una pozza di sangue. Le gocce che avevo notato sul pavimento si cristallizzarono nei miei occhi e non riuscii più a scacciarle. Li chiusi per un attimo, provando a raggiungere il balcone. Dopo qualche passo sbattei il piede contro un oggetto e fui costretta a riaprirli.

Ero inciampata in una scarpa col tacco, basso, color blu notte, probabilmente modello Maxine. La calciai via con forza e notai che la suola era cosparsa di un liquido grumoso, scuro. Trattenni un conato di vomito e scappai via.

Solo dopo essere giunti a casa, trovammo il coraggio di dirci qualcosa.

<<Dovevamo chiamare la Polizia. Può essere stato rapito, ferito, oppure… >> le parole mi rimasero impigliate in gola. André ascoltava e come sempre non apriva bocca. Era scosso, le mani tra i capelli. Avrei voluto chiedergli tante cose: come aveva fatto a rintracciare Marco, cosa si erano detti, perché aveva voluto che andassimo a trovarlo insieme; ma non riuscivo a smettere di pensare a ciò che avevo visto.

La macchia di sangue sul set, le gocce sparse fino in cucina, il cellulare lasciato sul tavolo insieme all’agenda, le scarpe femminili intrise di sangue non lasciavano spazi a dubbi. Mi figuravo la scena: Marco stava scattando con una modella quando all’improvviso qualcuno fa irruzione e lo colpisce alla testa, probabilmente con le scarpe della donna; o forse è stata proprio lei a procurargli una grave ferita. Ma perché?

Avrei voluto fare qualcosa, ma temevo che qualsiasi azione potesse riversarsi contro di me. André non mi era di aiuto e quel suo silenzio mi preoccupava, nascondeva qualcosa che non aveva alcuna intenzione di rivelarmi.

Più di tutto desideravo sapere che fine avesse fatto il mio amico, perciò me ne andai in bagno e tirai dalla tasca il suo cellulare. Conoscevo il pin, me lo aveva dettato per farmi vedere le foto dalle quali avrei dovuto prendere ispirazione. Volevo controllare le ultime chiamate e i messaggi che aveva mandato nella giornata, ma fui attratta dalla serie di notifiche su Instagram. Aprii l’app e sbirciai nei messaggi personali. Decine di contatti gli avevano inviato una foto dietro l’altra, ragazze di ogni età, persino qualche adolescente. Dagli scatti si capiva che alcune erano modelle professioniste, altre semplici amanti del genere, che scattavano parti del proprio corpo per attirare l’attenzione del fotografo.

Anche Whatsapp era pieno di chat con foto di ragazze nude o in pose artistiche. L’ultima era di una tale Veronica PhotoModel che aveva inviato alcune foto di sé in bianco e nero. Era ritratta di spalle, con la schiena scoperta, un velo leggero le copriva le natiche. Foto molto simili, scattate da varie angolazioni, probabilmente con l’autoscatto. Nella mia mente si palesarono ricordi di me stessa alle prese con le stesse posizioni.

Chiusi la chat per controllare la lista delle chiamate, ma tra gli ultimi contatti notai un nome che mi paralizzò. Aprii la conversazione e restai senza parole.

Uscii dal bagno per parlarne con André, ma mi bloccai sull’uscio. Sul portone di casa erano appena comparsi due agenti di Polizia.

Fotografia di Laura Manfredini

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