“STORIA DI UN CORPO”

I racconti fotografici del lunedì scritti da Antonio Sabia

Racconto 7 – PROFUMO

Se ne stava seduto al tavolo con un bicchiere di Rochefort 10. Classica birra da meditazione, ti faceva compagnia mentre riflettevi sugli errori della vita. Il suo sapore fruttato ti conquistava un sorso dopo l’altro, senza mai dissetarti; ne volevi sempre di più, perché in fondo di cazzate ne avevi fatte tante e ognuna aveva bisogno del suo tempo prima di essere dimenticata.

Pochi passi mi separavano da lui, ma non avevo il coraggio di farmi avanti. Eppure, avevo fatto di tutto pur di rivederlo.

Sapevo che se avessi voluto incontrarlo sarei dovuta andare nell’unico posto in cui riusciva ad estraniarsi da tutto, pur restando immerso nella folla. Il loggiato antistante Palazzo Vecchio era il suo punto di ritrovo, se ne stava per ore seduto a disegnare statue e passanti, a dare una forma al colore che aveva in mente. Il mondo intorno sarebbe potuto scomparire e lui non se ne sarebbe accorto.

Quella mattina, però, fu diverso. Non era molto concentrato, si distraeva volentieri. Così alzò lo sguardo verso un ragazzo che stava distribuendo volantini, tese la mano e in poco tempo maledisse quel suo raro gesto di socialità. Per venti minuti dovette sorbirsi le chiacchiere sulla presentazione di un libro dedicato all’impressionismo russo, prevista nel tardo pomeriggio. Lo liquidò con la promessa di non mancare, in fin dei conti l’argomento era interessante. Il ragazzo lo salutò, dandogli le spalle per nascondere il collarino bianco appena infilato nel colletto della camicia.

La libreria era in un vicolo nascosto dietro Piazza S. Croce. Conosceva bene la zona, lontana dalle vetrine dello shopping e intrisa di leggende medievali. Al suo arrivo, però, fu accolto da una sorpresa: la porta era sbarrata.

“Chiuso per inventario”.

Avrebbe voluto prendere a pugni quello stronzo che gli aveva fatto perdere tempo inutilmente, ma sarebbe stato inutile. C’era qualcosa di strano, a cui non sapeva dare una risposta. A chi verrebbe in mente di stampare e distribuire volantini, pubblicizzando un evento che non avverrà mai?

Se ne stava per tornare in albergo quando pensò che ormai il pomeriggio era andato a farsi fottere, meglio schiarirsi le idee davanti una buona birra.

Poco più avanti c’era un pub irlandese molto frequentato. Lì aveva conosciuto Richard e Chen, due pittori americani rapiti dalla sindrome di Stendhal. Sperava che a quell’ora non ci fosse nessuno, non aveva voglia di sentire altre chiacchiere. Aveva un block notes e delle matite, non aveva bisogno di altro.

Entrò. Uno strano odore gli invase le narici, un misto di birra, patatine fritte e qualcos’altro. Si andò a sedere ad un tavolo in fondo. Era l’unico cliente nel locale, nessuno con cui parlare, nessuno da ascoltare. Chiuse gli occhi per un attimo, figurandosi il ragazzo dei volantini, e Iniziò a disegnare. Il tratto scorreva sottile, quasi invisibile.

Amavo il suo modo di disegnare in silenzio, pensieroso; non aveva quella voracità che ho visto sotto i portici degli Uffizi, dove molti artisti di strada ritraggono i passanti velocemente, uno dopo l’altro, per arrivare a fine giornata con qualche banconota in più nel portafogli. Era un disegnatore lento, chissà da quale angolo dell’anima provenivano i volti che tracciava sulla carta.

Mi feci coraggio e gli andai incontro.

Mi sedetti di fronte a lui, ma come accadde la prima volta non alzò lo sguardo dal foglio.

<<Michelangelo diceva che ogni statua è custodita all’interno di un blocco di marmo, bisognava solamente togliere il superfluo. Mi piace pensare lo stesso del disegno: ogni pagina bianca è un volto, la bravura sta tutta nell’isolarlo da ciò che lo circonda>>.

Le sue parole erano dolci, con quel tipico accento francese che sapeva di attore cinematografico.

<<Come stai?>>, provai a domandare.

Alzò lo sguardo, i suoi occhi lucidi erano contenti di vedermi. Girò il foglio verso di me. Il locale era disegnato in tutti i suoi dettagli, ma c’era un particolare che per poco non mi fece sobbalzare dalla sedia: dietro il bancone si intravedeva un volto femminile, nascosto, che guardava nella direzione di un tavolo, al quale era seduto un uomo intento a disegnare.

<<Avrei dovuto capirlo subito>>, disse. <<Un tuo amico distribuisce volantini, un locale chiuso da mesi e io che vengo qui, come faccio spesso. Avresti dovuto utilizzare un profumo diverso, se non volevi farti riconoscere>>

<<Me lo hai regalato tu, ricordi?>>

Sorrise.

Parlammo fino a tarda serata. Di tutto. Mi scusai per quel segreto che gli avevo taciuto, in maniera infantile. Gli promisi che non ce ne sarebbero stati altri, ma sapevamo entrambi che era una menzogna. Ogni rapporto tra persone che si amano si fonda su quei piccoli segreti che ognuno coltiva di nascosto. Non esiste nessun “noi” che possa eguagliare l’originalità dell’ “io”. Siamo nati per cercarci, è vero, ma nessuno è disposto a perdere se stesso, con tutti i propri segreti.

Non era mai stato così loquace come quella sera. Ammetto che ero stata meschina. Una scenetta teatrale organizzata con Paolo pur di riavvicinarlo, completata da quel tocco di femminilità, alla quale non avrebbe resistito. La scelta del profumo non era stata casuale, impazziva per le essenze femminili. Di tutti i sensi, l’olfatto era quello che lo attraeva di più; non riusciva a capacitarsi di come il cervello riuscisse a creare sfumature sottili di un qualcosa che non si vede e non si sente. La bellezza del profumo non è diversa da quella dell’anima, impercettibile ed eterna.

Bevemmo birra, stuzzicando patatine, fino a farci cacciare dal locale.

<<Torni a casa?>> gli chiesi.

<<Prima devo chiederti un favore>>

<<Quale?>>

<<Ho conosciuto Marco e mi ha chiesto di te. Dovresti accompagnarmi da lui>>

Fotografia di Laura Manfredini

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