“STORIA DI UN CORPO”

I racconti fotografici del lunedì scritti da Antonio Sabia

Racconto 5 – MANI

Paolo mi raccontò i suoi anni di seminario come di un lungo viaggio alla riscoperta di se stesso.

All’inizio non fu facile rinunciare ai piaceri del mondo, per dedicarsi interamente allo studio e al dialogo con Dio, soprattutto per uno che prima di allora era sempre fuggito agli obblighi della religione. Si era rifugiato in un convento di Padri Passionisti per fuggire alle ricerche della Polizia; immaginava che prima o poi lo avrebbero trovato, ma nel frattempo aveva modo di riflettere su quanto accaduto per difendersi liberamente in tribunale. Degli avvocati non si fidava abbastanza.

Fu accolto con grande ospitalità e senza troppe domande, questo gli permise di vivere la quotidianità senza il fardello della continua menzogna. Al convento servivano braccia da utilizzare nei campi e nei lavori di ristrutturazione, la preghiera e un pasto caldo gli sembravano un ottimo compromesso.

Passarono alcune settimane prima che il suo passato venisse a bussare alla porta del convento. Fu un monaco a portare la notizia ai confratelli. Avevano finalmente arrestato il giovane spacciatore che aveva rifornito di droga una festa di compleanno culminata con un morto per overdose. Il ragazzo aveva confessato, scagionando l’allora unico sospettato: Paolo.

Seguirono giorni di silenzio. Al monastero nessuno faceva domande e Paolo aveva poca voglia di parlare. Ma non se ne andò. Restò ancora per qualche settimana, poi mesi, infine anni, passando dal monastero al seminario, infine ad una chiesa in campagna tutta sua.

<<Non ti è mancata la vita là fuori, in tutti questi anni?>>, provai a chiedere.

<<Da morire, ma più di tutto mi è mancato il mio corpo>>. Forse il mio sguardo stupito parlava da sé, così Paolo anticipò la mia domanda. <<Il mio corpo è sempre stato lo strumento con il quale mi avvicinavo al piacere, che fosse legato all’alcol, alle droghe o al sesso. Il calore dal quale era avvolto mi dava una soddisfazione immensa, per quanto di breve durata. Così ne andavo sempre alla ricerca. Il convento, poi, ha cambiato tutto. Usavo il mio corpo per lavorare e riposare, nient’altro.>>

<<Ti è mancato il piacere, quindi?>>, chiesi.

<<Forse non l’ho mai provato. Quello vero, intendo>>. Mi guardava dritto negli occhi, con un’intensità che irrigidiva ogni fibra del mio corpo. Ebbi paura. <<In tutti questi anni mi sono chiesto più volte in cosa consistesse il vero piacere. Fin quando ho avuto tutto, il mio unico pensiero era provare soddisfazione in ciò che altri non potevano permettersi: droghe, feste a base di superalcolici, sesso a pagamento con donne sposate. Mi facevano sentire vivo. Dopo quella maledetta serata ho dovuto rinunciare a tutto, ma forse è stato un bene. Ho iniziato a lavorare nei campi, a metter su mattone dopo mattone, mi sono anche dedicato alla scrittura e al lavoro col legno. Era il mio modo di ricambiare la loro ospitalità. Ma non riconoscevo più il mio corpo, non sembrava mio. Ero continuamente stanco, mi faceva male di tutto, dalla schiena alle mani. Sembravo un cadavere che a stento riusciva a reggersi in piedi>>

<<Il tuo corpo non era abituato a quel tipo di sforzo fisico>>, provai a commentare.

<<No, era la mente il problema. Non avevo mai pensato che il corpo potesse dare piacere a qualcun altro, oltre che a te stesso>>

<<In che modo?>> chiesi, sperando che non cogliesse il doppio senso.

Si guardò le mani, robuste e incallite. <<Gli ortaggi che coltivavo hanno sfamato me e i miei compagni per anni, le decorazioni sulle panche in legno venivano apprezzate da chiunque entrasse in chiesa anche solo per una preghiera, le cella che ho tirato su ha dato un tetto ad altri forestieri per oltre un anno. Sentire gli apprezzamenti di chi ha goduto del frutto del tuo lavoro mi ha distratto da ogni altro pensiero, da qualsiasi altra ricerca. Era quello il piacere che mi mancava e lo avevo capito solo dopo aver trasformato il mio corpo da obiettivo del piacere a semplice strumento.>>

Restò in silenzio, mentre con le dita accarezzava la tazzina vuota davanti a sé. D’istinto mi guardai le mani, mentre nella testa risuonava l’eco delle sue parole. “Che rapporto avevo con il mio corpo? Era un fine o un mezzo? Per quale piacere, poi?”

Non me l’ero mai chiesto, ma sentivo che quella domanda mi apparteneva. Le prime foto che scattavo e che mostravo a Paolo erano un timido tentativo di rispondere a quella domanda, inconscio forse, per questo ero sempre molto timorosa e vergognosa. Anche quando le foto si trasformarono in video, innocenti e peccaminosi. Poi tutto finì quando quel materiale arrivò sul cellulare di altri ragazzi, per sbaglio disse Paolo, che dovette risolvere la faccenda a calci e pugni.

Non ho più continuato, ma dentro di me quella domanda continuava ad albergare. Forse era stata la sete di risposte che mi aveva legato prima ad André e alla sua voglia di disegnarmi, poi mi aveva trascinato nello studio fotografico di Marco.

Tentativi maldestri di trovare una risposta, che mi hanno solamente allontanata dagli uomini che mi interessavano.

Fotografia di Laura Manfredini

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